Chi è Paolo Hermanin

Senza troppo soffermarsi su questioni percentuali, va rilevato che buona parte dell’alveo culturale di Paolo Hermanin è segnato per parte paterna da influssi germanici. Commistioni mitteleuropee che dalla Milano austroungarica si confrontano con la cultura italiana e che con il nonno Federico si contaminano con l’amministrazione del bene pubblico, in particolare quello delle Belle Arti sotto la guida di Adolfo Venturi di cui Federico Hermanin fu allievo alla scuola di Perfezionamento di storia dell’arte della Sapienza -, e di Corrado Ricci, direttore generale delle Antichità e belle arti del Ministero della Pubblica Istruzione. Il percorso mitteleuropeo si complica con l’entrata in scena di cugini e parenti di origine varia, tra l’altro francese, e sebbene tutti gli Hermanin abbiano studiato il tedesco dalla signora Bretschneider sopra il Caffè Greco, PH avendo un debole per la Francia, parla correntemente francese e balbetta solo un po’ di tedesco. Nulla di inglese. Proprio in Francia a Nizza, dopo gli studi al Liceo Classico Giulio Cesare negli anni del Sessantotto, Paolo andrà a studiare presso l’École des Arts Decoratifs. Un’esperienza formativa per molti versi, meno per altri. Di quest’esperienza ricorda con maggior intensità le passeggiate sulle Alpi Marittime, la vita da studente – out of family – sul suo Solex nero. La capacità di osservazione e descrizione della natura, messa a punto in anni di formazione alla Walden ovvero la vita dei boschi di Thoreau prima seguendo le orme del padre e, poi, da solo con gli amici, mal si componeva con i moduli e patterns decorativi che costituivano l’ossatura didattica dell’École nizzarda. Un temperamento più da paesista – “i paesi si debbono ritrarre in modo che gli alberi sieno mezzi illuminati, e mezzi ombrati;ma meglio quando il sole è occupato da nuvoli, che allora gli alberi s’illuminano dal lume universale del cielo e dell’ombra universale della terra” scriveva Leonardo-, che poco si accordava con la didattica delle arti decorative. Le immagini e descrizioni significanti mal si riconducevano alla semplificazione di moduli ripetibili, appartenendo piuttosto a suggestioni di una natura guardata attraverso il velo romantico dei Discepoli di Sais di Leopold von Harderberg Novalis e soprattutto della natura e degli squarci visionari dei paesaggi di Friedrich.

Così l’esperienza formativa di Nizza si interrompe, anche per motivi familiari,lasciando una certa indecisione sul da farsi, sulla strada da imboccare. Le doti imitative,riconosciute nella cerchia familiare e tra gli amici, – PH si divertiva a mettere in scena per i 5 fratelli interi pezzi dai western di John Wayne-, unite ad una attitudine naturale per l’uso creativo di penne e matite e l’interesse per il riverberare di immagini e superfici sulla realtà più intima dell’esperienza, additavano a due possibili rotte: una, la storia dell’arte con il suo mondo di apparenze soggettive, l’altra la psicologia e lo sfuggente mondo interiore all’ombra dell’inconscio.

Due discipline accademiche, queste, che mal si combaciavano con la dinamica dell’osservazione introspettiva di PH e tanto meno con le gite artistiche romane e laziali d’eredità del nonno Federico. Non erano esperienze in grado di fornire suggestioni significative allo studente impaziente d’osservazione e pratica del segno e del chiaroscuro. La scelta comunque ricadde prima sull’Università e poi sul teatro con gli anni di ricerca al teatro Alberico di Roma e, successivamente in compagnia con Paolo Poli, Luca Ronconi e Mario Missiroli in giro nelle piazze d’Italia, dal Nord al Sud dell’Orestea di Ghibellina, sino agli inizi dei Novanta. Detto questo, l’interesse per l’arte, per quanto non formalizzato in una veste compiuta e ufficiale, rimane una pratica collaterale durante tutto questo periodo. Tra una tournée e l’altra – il teatro lascia tempo libero -, PH lavora presso al bottega di vetrate artistiche e lavori su vetro messa in piedi dai cugini. In questi spazi di tempo ritagliato nascono le incisioni su specchio e la mostra alla Galleria Studio S di Siniscalco nel 1989. Non pochi si augurarono, dopo le ottime critiche ottenute, che finalmente PH mettesse a frutto le sue doti di segno sottile e preciso aspettandosi fogli e fogli pieni di disegni, illustrazioni di libri e quant’altro. In questo senso qualche gallerista avanzò proposte, ma per una esposizione di disegni mancava l’imperativo, l’urgenza. Hermanin infatti, sempre piuttosto timido e restio a vedersi come artista, si professava categoricamente artigiano.

Un disegno non poteva avere alcuna utilità se non quella d’uso professionale, si potrebbe dire quella “accademica” nel senso più settecentesco del termine, quello del Disegno principe delle Arti. E di disegni per amici, per gioco e per dono PH in questi anni ne ha messi su carta molti senza seguire un percorso definito. Di tutti i generi e modi. Ad intrecciare nuovamente questioni di biografia, va dettoche prima che l’esperienza teatrale si sfilacciasse sino ad esaurirsi, un ultimo incontro con un grande vecchio della regia italiana – Orazio Costa -, offrì a PH l’occasione di mettere insieme almeno in segni sottili, l’unità di recitazione e incisione su specchio. Proprio a Orazio Costa dedica infatti una Tempesta teatrale e Costa, opera che non arriverà mai al destinatario morto poco dopo il loro incontro.

“Servendosi assai del nero per dar rilievo alli corpi”, come scriveva nel 1672 Giovan Pietro Bellori a proposito del Merisi, PH mette in scena sugli specchi frammenti e particolari della natura un po’ vissuta e un po’ sognata. Paesaggi, oggetti, prospettive architettoniche, il vento come presenza insistente nel moto delle nuvole, vedute a volo d’uccello, particolari isolati e ravvicinati – tutti “carpiti” dalla vernice bruna smarginata dalla luce che cade dall’alto -, si rincorrono e vanno complicandosi in questi anni. Alberi, vette, soprattutto nuvole e rocce, passano sugli specchi viaggiando dalla massima definizione sino alla semplificazione, all’osso della descrizione e significato sempre tradotta con la tecnica del bulino rovesciato. L’incisione traduce il croquì; bozzetto accademicamente compiuto e controllato dalla composizione alla partizione di scuri e chiari. Gli scarti – le opere accantonate -, peccano di accordo o di eccesso descrittivo. Mai però si tratta di rifiuto di precisione nella resa della luce e del suo puntinato o di accordo tra parti di ombra e di massima luce.

Un fornitore, un vetraio, guardando queste opere ebbe a dire: “un lavoro da carcerato”.Si trattava di un parere spassionato, l’avrebbe ripetuto, se ne avesse avuto l’occasione, anche davanti alle fasi di lavoro della Grande-Jatte di Seurat che diedero a Longhi l’occasione di una mostra di disegni a Venezia (1953) affascinato dalla strada “de sensu ad intellectum” che percorreva la “diversa densità del bianco e del nero, la diversa precipitazione della luce che serve a ricreare la materia”. Seurat come altri, è parte delle stratificazioni del visto e osservato, incontrato, senza alcuna preferenza da PH. E’ dentro il magazzino di cose viste antiche e moderne, che difficilmente potrebbe trasformarsi in citazione diretta (da Dürer a Friedrich, da G.B Lusieri a Duchamp a Moebius).

La curiosità per le altrui visioni e segni è anche capacità di comprensione e intuito per le potenzialità espressive di tecniche e materiali diversi nella tradizione del faber. E non solo quelle inerenti il vetro su cui ha lavorato e lavora – vetri dipinti, vetrate a piombo -, ma anche per altri materiali dei quali si è trovato a sperimentare le potenzialità espressive, sollecitato dalla committenza che domanda ispirazioni, soluzioni a un problema e concretizzazioni di propositi. Il legno, gli acrilici sul muro, ma soprattutto la creta e la scultura in bronzo si prestano ad essere plasmati dalle forme della sua immaginazione. In particolare la creta e la fusione a cera persa, come gli specchi, si accordano con la mobilità e vibrazione della luce e del segno di PH capace di suggerire un protagonista silenzioso ma pervasivo delle sue immagini quale il vento. Con entusiasmo particolare PH ha guardato tra i films non solo Barry Lindon di Kubric, ma anche la descrizione significante, tra Land art e paesaggio interiore di un piccolo film francese sul Vento di cui non ricordo il nome del regista. Se qualcuno lo ricorda può completare il quadro.

Le presenze significative che si plasmano o si grattano dall’ombra continuano ad apparire in questi anni in cui, tra le tante esperienze interrotte ma non accantonate,è la montagna, le escursioni, a fungere da cornici e comune denominatore anche della curiosità poi divenuta negli ultimi anni pratica quotidiana dell’energia sottile che regola universo e agire umano, parte integrante della tradizione orientale vedica che ha un suo bagaglio di segni e camminamenti nella natura. La costruzione di equilibri della pratica dello Yoga e la ricreazione di architetture visive il cui elemento strutturante è l’unione di chiaro e di scuro sembrerebbero allontanare PH dalla cultura libresca – in senso buono – e classica che una ben solida tradizione familiare custodisce e reitera. Sembrerebbe … Il tutto si riunisce e accorda come nella pratica del camminare – pratica ludica ed educativa insieme che fa capolino nelle apparizioni di rocce, di nuvole mosse dal vento, alberi e picchi degli specchi incisi.

Così anche il mondo familiare con la sua stratificazione di letture trova un suo posto. La compresenza di cinque fratelli permette l’opposizione e amplificazione di voci e echi letterari che dagli scaffali si moltiplicano e rimbalzano nelle battute e scambi conviviali durante gli incontri occasionali e le affollate convivenze estive. In una di queste occasioni, un autore, accomodatosi sullo scaffale del secondo piano della casa di campagna della famiglia uscì fuori anni fa dal suo polveroso nascondiglio durato svariati anni riemergendo dalle letture adolescenziali per trovare una sua attualità. Era un polveroso volume della Casini edito nel 1953. La raccolta di Hugo, appassionato inchiostratore di fogli oltre che scrittore, in cui a Novantatre era accostato anche I lavoratori del mare.

Proprio su questo volume scivolato giù dallo scaffale, uno dei fratelli ebbe a ridire.S’imbastì una breve discussione munita di citazioni di brani portati ad esempio di critica e difesa. Un pomeriggio piovoso, annullate le gite in programma, aleggiò per il corridoio sotto lo scaffale di vecchi libri di lettura la frase di Hugo che è sottotitolo di questa mostra. Rimase per anni per aria sino a questa occasione.

di Serenella Rolfi